Firenze: “con i Kiwi facciamo anche l’aceto ed evitiamo sprechi alimentari”

di Salvatore Giordano

Una start-up laziale trasforma i frutti scartati, trasferendoli dai campi alle botti in rovere. Evitare di perdere il 40% dei propri kiwi, scartati a causa di regole estetiche. È stato questo il motore, che ha spinto la famiglia Ferrari a investire nell’innovazione, trasformando i kiwi in aceto.

Per ridurre al minimo gli sprechi e valorizzare un prodotto di qualità, questa azienda agricola a conduzione familiare ha inventato e brevettato una ricetta che si fonda sulla sostenibilità.

Una storia che nasce dalla terra e si trasferisce nei laboratori, in collaborazione con diversi Atenei, come l’Università di Firenze e quella della Tuscia, sono state realizzate le analisi necessarie per testare le proprietà organolettiche dei nuovi prodotti (aceto, glassa e composta di kiwi) e per sviluppare le tecnologie idonee ad una produzione da lanciare sul mercato.Dal 1988, nell’agro pontino i Ferrari possiedono 5 ettari di campi coltivati con kiwi a pasta verde di tipo Hayward. Una grossa parte dei frutti, buoni nel gusto ma imperfetti nella forma o inadatti nel peso, andavano persi a causa di scelte di mercato.

La tagliola degli intermediari della Grande Distribuzione Organizzata (G.D.O.) arrivava a falciare il 40% della produzione,mentre la G.D.O. impone uno standard dai 65 grammi in su, molti kiwi di questa azienda, che ha puntato sul biologico, si arrestano intorno ai 60 grammi. Di qui, uno scarto massiccio che frustrava il signor Roberto, proprietario dei campi. In molti casi, le dimensioni ridotte sono indice di salute, perché il frutto non viene stressato all’eccesso, preservando il sapore.Per evitare un tale spreco, Ferrari prova a farne del vino.

L’esperimento non riesce, ma, due anni dopo, il contadino ritrova nelle damigiane una spremitura, che aveva assunto proprietà sensoriali diverse. Ecco l’intuizione: creare un aceto di kiwi. “Questo frutto è uno dei più propensi alla fermentazione. Abbiamo capito subito che, oltre ad abbattere gli sprechi, avremmo potuto coniugare tracciabilità, qualità e richieste del mercato”, sostiene Federica Ferrari, figlia di Roberto e responsabile commerciale della start-up L’Agro del kiwi, creata appositamente per questa linea di prodotti.

L’operato dell’azienda si inserisce nell’ampia filiera del Lazio, che è la prima Regione per coltivazione di kiwi in Italia, con 9.000 ettari coltivati. Il contributo dell’agro pontino rende l’Italia il primo Paese produttore del frutto, originario della Cina e coltivato, per la prima volta, in modo massivo in Nuova Zelanda a partire dagli Anni ‘50 del secolo scorso.
La vicenda dei Ferrari accomuna moltissimi produttori, costretti allo spreco alimentare da un sistema a tratti perverso. Secondo studi recenti, ogni anno l’Europa getta via tra i 3,7 e i 51,5 milioni di tonnellate di frutta e verdura considerati “brutti”.

Significa che il 17% del prodotto ortofrutticolo destinato al consumo umano viene buttato direttamente nelle aziende agricole perché giudicato inadatto al consumo. Un dato che incide anche sull’ambiente. Cereali, frutta e verdura producono, infatti, gran parte dell’impatto nella fase della coltivazione.

I fattori sono svariati: dall’acqua per l’irrigazione all’utilizzo dei fertilizzanti (chimici o naturali); dagli agro-farmaci al gasolio per i macchinari. Il fatto che una tale quantità di alimenti venga rifiutata solo perché considerata di scarso appeal estetico costituisce un’aggravante per le conseguenze sul clima e sulle risorse energetiche impiegate. Tramite la recente strategia Farm to fork, la Commissione Europea intende indagare sulle perdite alimentari nella fase di produzione ed esplorare le modalità per prevenirle.

L’Agro del kiwi offre un esempio italiano valido, che si è mosso in anticipo in questa direzione. Nell’abbattimento degli sprechi rientra anche la gestione dell’acqua. Secondo i calcoli dell’azienda pontina, almeno 4000 metri cubi d’acqua sono stati recuperati, visto che sono serviti ad innaffiare frutti non più destinati a diventare rifiuti, ma utilizzati nella produzione dell’aceto e dei prodotti derivati.Per concretizzarsi, l’idea del signor Roberto ha dovuto affrontare tutti i passaggi necessari alla vendita di nuovi prodotti nel mercato alimentare. Tra il 2012 e il 2014, l’azienda pontina intraprende le analisi accreditate interne e a fine 2014 viene depositato il brevetto.

Nel 2016, avviene una svolta ulteriore, grazie al contributo dell’Università di Firenze ed in particolare della professoressa Annalisa Romani, che fa caratterizzare l’aceto e in uno studio, poi allegato al brevetto, ne dimostra le proprietà. Roberta Bernini, docente dell’Università della Tuscia, ha curato in seguito una parte della caratterizzazione degli aceti, nell’ambito di progetti relativi alla sana alimentazione. “Abbiamo avuto sin dall’inizio un’ottima comunicazione con gli Atenei con cui collaboriamo. Di certo è l’istituzione pubblica, che più ci ha aiutato in questo lungo processo”, afferma Federica, che ha curato l’inserimento sul mercato a partire dall’ottobre 2019.

La responsabile vendite ammette con un pizzico di amarezza una strada irta di difficoltà, tra intoppi burocratici e un mercato in sofferenza a causa della pandemia, ma è convinta che la direzione sia ormai segnata.Investire sull’innovazione e l’abbattimento degli sprechi ha determinato anche un mutamento nella struttura aziendale. “Abbiamo maturato nuove professionalità nella filiera”, ammette la Ferrari, aggiungendo: “Mio fratello Enrico, già tecnico responsabile della qualità, oggi è un vero e proprio manager del settore agro-alimentare, curando la tracciabilità del prodotto e la sua personalizzazione, dalla selezione del frutto fino alla trasformazione”. Il passaggio ad un bene alimentare ad alto valore aggiunto ha spinto la stessa Federica ad acquisire nuove competenze, come evidenzia: “Sono passata da una figura prettamente commerciale a diventare la responsabile innovazione dell’azienda, dato che ormai sono, perennemente, impegnata nello studio di nuovi prodotti”. Tuttora, il processo di trasformazione è di tipo artigianale e meccanico, ma l’obiettivo è di investire in tecnologie strutturali, anch’esse conformi a criteri di sostenibilità.

A breve, dovrebbero essere inserite nel ciclo di trasformazione delle vasche in calcestruzzo vetrificato, il cui silicone deriva a sua volta da scarti. Si tratta di un prototipo, che ha necessitato tre anni di esperimenti, fornito dal laboratorio Phytolab del Polo scientifico e tecnologico dell’Università di Firenze. “Il mondo agricolo, spesso, soffre di forme di isolamento ed egoismo, ma noi abbiamo creato una sana collaborazione, sia con gli Atenei che con altri produttori, che ci forniscono i loro frutti scartati”, sottolinea la Ferrari, che aggiunge: “Nonostante fatiche e ritardi, iniziamo a intravedere risultati che premiano queste collaborazioni, anche a livello di business”. La cooperazione con il mondo accademico sta evolvendo anche in base alle nuove esigenze legate al sistema produttivo.Grazie alla strumentazione di cui è dotato, l’Istituto Zooprofilattico del Lazio e della Toscana effettua ad esempio il tracciamento dei lieviti presenti nei kiwi, che conferiscono le qualità dell’aceto ed il suo caratteristico aroma. I lieviti si sono rivelati dotati di tutta una serie di proprietà organolettiche, grazie a microrganismi autoctoni e agli antiossidanti.

Inoltre, la start-up lo sta utilizzando come ingrediente in altri prodotti, come, ad esempio, nel cioccolato, oppure essiccandolo per creare snack e inserendolo in barrette o taralli. Per il futuro Federica ammette: “Vorremmo eliminare totalmente lo scarto del 40% e dedicare i nostri cinque ettari di frutteto solo ai prodotti derivati, arrivando a circa mille quintali da dedicare alla trasformazione. La strada è ancora lunga ma scommettiamo di farcela”. Per questa famiglia dell’agro pontino l’abbattimento degli sprechi ha tracciato un nuovo orizzonte, economico e di vita.